Il tempo nel web

In Aa.Vv. , Le parole della teoria: la temporalità, vol. 1, Hevelius, Benevento, pp. 72-79.

Un approccio ambientale

La sensitività mediatica di ciascun individuo sembra essere strettamente relativa alla nicchia in cui vive. L’idea non è nuova e non è stata affatto elaborata dai sociologi, come si crede comunemente, ma dai biologi e dagli psicologi. Di fatto essa precede di almeno un ventennio i media studies. Nel 1934 Jakob von Uexkull pubblicò un volume intitolato “Quattro passi attraverso i mondi degli animali e dell’uomo: il libro illustrato dei mondi invisibili”, dove introduceva l’idea di Umwelt (ambiente), ovvero l’insieme delle caratteristiche ambientali cui è sensibile un dato tipo di animale. L’articolata ipotesi di von Uexkull può essere ridotta a quanto segue: si è sensibili soltanto a una gamma ristretta di indicatori fra gli infiniti tipi di segnali che riempiono di sé un ambiente circoscritto. Quindi, ogni specie, e ogni individuo di ciascuna specie, è sensibile soltanto a quei segnali di richiamo che fungono da guide per condurre l’esemplare a una determinata meta. La meta è quasi sempre vitale o banale: il cibo, il riparo, l’individuo dell’altro sesso. Ma può anche essere una combinazione più sofisticata di bersagli, specialmente se si considerano specie di crescente complessità. Da questo punto di vista ogni mondo percettivo è in realtà un mondo “contratto”, ovvero “ristretto”. Un universo “concentrato” all’interno dei segnali di richiamo valicati dagli apparati sensomotori, a loro volta tarati in ogni specie e convalidati dalla specifica relazione col proprio ambiente.

Molti anni dopo il filosofo e psicolinguista Jerry Fodor, nel suo “La mente modulare” (1983), avrebbe usato l’espressione percezione incapsulata per indicare il fatto che tanto i ricettori quanto gli esecutori sono forgiati per elaborare soltanto un tipo di segnale, escludendo gli altri. Il concetto ha ricevuto ampia conferma dai dati sperimentali provenienti dalle più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze e dalle applicazione della robotica. Perciò, si può ragionevolmente affermare che ogni sistema sensoriale è incapsulato, e che lo è anche ogni forma rigida di elaborazione dell’informazione.

Estendendo il concetto si può sostenere che ciascun individuo (ma anche ogni rete sociale di qualche tipo) vive e reagisce in modo specifico a un ambiente effettivo, selezionato tra gli infiniti ambienti possibili compresenti. Per converso, ogni habitat è definito dai parametri che assumono importanza per un individuo (o per una rete sociale) che manifesti un ben preciso stile di vita.

È possibile utilizzare questo schema per un’antropologia dell’esperienza estetica radicata sulla presenza dell’umwelt? Si può forse iniziare affermando che umwelt è tutto ciò che forma un sistema cognitivo prestabilito. Basta scorrere a volo d’uccello gli studi di Edwin Hutchins, di Merlin Donald o di Andy Clark per intendere che le scienze cognitive sono da tempo indotte a elaborare teorie darwiniane della coscienza che integrino le caratteristiche dell’umwelt nelle strutture emergenti e peculiari dei medesimi sistemi cognitivi. L’ambiente sembra in grado di esercitare un fantastico potere, perfino su quelle strutture della percezione che il senso comune ritiene al riparo da ogni intromissione. Ad esempio, per effetto di ciascun umwelt la temporalità si tradurrebbe in un certo tipo di “temporizzazione”; tempo soggettivo e tempo oggettivo non sarebbero, in tal caso, esperienze ed atti qualitativamente differenti. Al contrario, dovrebbe sempre esistere una correlazione tra la percezione di determinate strutture del tempo e quegli insiemi di segni che hanno una dichiarata valenza estetica.

L’obbedienza temporale nel sistema dell’arte

Ogni cultura impiegherebbe specifichefacoltà ritmiche” come mezzi espressivi. Ma in che rapporto stanno, al giorno d’oggi, le espressività ritmiche con i mezzi tecnologici che le producono, favoriscono e diffondono? Tv satellitare, videoclip e telefonia mobile hanno introdotto elementi armonici di nuova concezione e potenza, ma non è in questi contesti comunicazionali che si verifica l’autentica rivoluzione estetica “inavvertita” del nostro tempo.

Il punto centrale di questo intervento consiste nel porre sommariamente in luce due differenti forme della percezione spazio-temporale, connettendole alle relative risultanze estetiche. Si tenterà inoltre di illustrare in che modo e attraverso quali vie la crescente diffusione del Web stia alterando un meccanismo percettivo e cognitivo consolidato da oltre un secolo di eventi psicodinamici. Per collocare nella giusta prospettiva queste differenti modalità dell’“essere nel mondo” si presuppone che esistano come minimo due tipi di ambienti: veri e propri habitat che spesso si intersecano, ma che ciò nonostante non si confondono.

Ogni habitat psicosensoriale è fisicamente composto da determinati processi applicativi. Di fatto, è lecito concepire tutte le “opere d’arte” come esempi di applicazioni in vari campi che vengono definiti (per approssimazioni) pittura, video, cinema, musica e così via. Ma la qualità estetica di una partizione qualsiasi, estratta dal continuum psicosensoriale, è dovuta a una scelta, a un processo decisionale. A rigore, qualsiasi tipo di segnale ha una sua “qualità” estetica. Se si adotta un approccio che connette il concetto di scelta a quello di habitat psicosensoriale risulta evidente che l’oggetto (o l’evento), latore di una sua qualità percettiva, non è che un segnale incapsulato, un segnale che si offre a un determinato tipo di ricezione, e solo a quello.

Prendiamo ad esempio il modo in cui si connota l’opera d’arte tradizionale. Siamo tuttora abituati a concepire il momento della fruizione artistica secondo una scansione spazio-temporale ben definita, accreditata dalla tradizione, o, in altri termini, avvalorata da un tipo di esperienza psicodinamica che affonda le sue radici in un lontano passato. I pittori, i trombettisti, gli attori, i creatori di video e di ambienti artificiali, i performer, i disegnatori di fumetti e insomma tutti gli specialisti abilitati a manipolare strutture che manifesterebbero de facto una loro “estetica”, non sarebbero altro che individui addestrati a costruire insiemi di segnali “in uscita” che possono essere decodificati “in entrata” solo se i canali sensoriali e interpretativi sono adeguatamente tarati, cioè incapsulati.

Il fattore ritmico, non solo sonoro, dovrebbe essere una delle componenti essenziali di questo genere di strumentazione psicosensoriale, e probabilmente fungerebbe da sistema di modulazione in costante attività. Senza questo lavorio l’evento esteticamente definito (e poi accreditato) non potrebbe neppure nascere.

Un approccio del genere di solito provoca un violento rifiuto. È la forza delle idee tradizionali. Si è portati a difendere la specificità dell’artista, la sua particolare “qualità”. Il senso comune attribuisce a questo genere di persone speciali condizioni psichiche, facoltà particolari, non ben definibili ma nondimeno “evidenti”. Se così fosse queste presunte peculiarità dovrebbero innanzi tutto investire il rapporto con la temporalità.

In effetti, il senso comune ritiene che sia proprio così; si è insomma indotti a credere che l’artista non possa essere considerato una figura forgiata dalla specializzazione del lavoro. Gli artisti – va da sé – sono coloro che per definizione possono instaurare relazioni con lo spazio e con il tempo del tutto peculiari, privilegiate, astraendosi dai cicli imposti dai modelli produttivi dominanti. Si presuppone inoltre che i tempi di elaborazione, di creatività, di invenzione, richiesti all’artista, si sottraggano ai ritmi scanditi dall’orologio; si crede, infine, che l’artista sia dispensato dai legami comuni, al punto che volendo può ignorare il contesto globale, almeno in certa misura. In particolare, è assolutamente ovvio ritenere che gli sia estranea quella modulazione di ordine superiore, quella meta-modulazione che è la temporalità prodotta dallo strumento psico-ritmico per eccellenza: l’orologio.

In realtà, il nostro pianeta da più di un secolo gira sull’asse del tempo unificato, sulle cadenze della produzione, sulla scansione della catena della distribuzione e sulle regolarità o irregolarità del consumo delle merci. Si tratta di un fatto ovvio, perfino banale, che prescinde dalla valutazione politica o morale dei fatti, come rilevò Stephen Kern in un suo notissimo volume. Sono stati appena sottolineati quattro termini che richiamano subito alla mente il sottofondo ritmico della modernità, la sua intrinseca dipendenza da uno “strumento universale ben temperato”.

Eppure l’arte pretende di non soggiacere a questa pressione psicodinamica. Non soltanto l’atto della creazione dell’opera ne sarebbe estraneo, ma lo sarebbe in linea di principio anche quello del suo godimento. L’eterea pausa dello spirito sembrerebbe appartenere a un tipo di temporalità che si sottrae al ritmo dell’orologio. In effetti, parte del residuale fascino dell’artista “tradizionale”, e della sua arte, risiede proprio nel fatto che avvertiamo nella sua figura una “differenza” significativa, che si concretizza nel suo vissuto temporale apparentemente alterato, fuori le righe, dissonante.

Pura e semplice illusione. L’antropologo David Landes, nel suo recente “Revolution in Time: Clocks and the Making of the Modern World”, osserva che l’onnipresenza del “semplice” orologio da polso ha creato una forma di “time obedience”, un’obbedienza temporale istillata dalla necessità di adeguare tutti gli stili di vita alla misura del tempo. È quasi superfluo ricordare che l’orologio da polso è una protesi individuale che rimanda all’orologio universale del tempo unificato. Ed ecco che un “innocente” strumento personale, diffuso pressoché ovunque, implica l’esistenza di una ferrea disciplina temporale, una disciplina che si estende ipso facto dai luoghi sociali agli spazi individuali. Ciò vale anche per chi ostenta un polso libero da orpelli; è sufficiente che il soggetto in questione possegga un telefono cellulare, un cercapersone o un notebook; basta insomma che utilizzi un qualsiasi strumento elettronico connesso al tempo unificato e il gioco è fatto: scatta immediatamente la disciplina temporale. Ma se così è, allora l’obbedienza temporale tende a cooptare nella sua logica tutti gli stili di vita.

Anche quelli dell’artista? Apparentemente no, si direbbe. In realtà sì. A ben vedere, le forme estetiche tradizionali obbediscono a dinamiche specifiche che richiedono profili molto rigidi di obbedienza temporale. Vediamo come.

Innanzi tutto, l’artista chiuso nel suo studio non è veramente libero dai legami col suo orologio da polso. Esso, al contrario, scandisce i suoi tempi creativi, lo lega al sistema “esterno” di produzione, presentazione, valorizzazione, distribuzione e consumo della merce artistica. Inoltre, ogni luogo di esposizione, di presentazione o di ritualizzazione dell’evento estetico è una configurazione “visibile”, ma incatenata a questa struttura temporale invisibile. Per esempio, le gallerie d’arte possono funzionare solo se seguono un calendario, e le esposizioni di più ampio respiro sono inquadrate in precise segmentazioni semestrali, annuali, biennali, triennali, quadriennali e così via.

Anche il sistema museale, sul quale si incardina al più alto livello l’art system, è inserito in una ferrea griglia temporale e impone una disciplina temporale a ogni operatore del settore, dal curatore all’artista. Tutte le reti tradizionali si basano su questa tipica struttura del tempo segmentato; una struttura che si può definire “forte”, ubiquitaria e rigida.

L’impressione di fluidità è solo apparente, ed è data dal fatto che in quanto singoli individui tendiamo a dividere il nostro tempo basandoci sulle lancette del nostro individuale orologio da polso, tendiamo cioè ad articolare il tempo secondo le nostre apparenti esigenze soggettive. Tuttavia, non appena il singolo si connette all’unità sistemica di ordine superiore questa presunta liberà si dissolve in un istante. Le arti tradizionali prosperano in presenza di strutture articolate che si basano su forme di comunicazione e di organizzazione tendenzialmente gerarchiche. La direzione di causazione è sempre uno-molti.

Tutta la cultura del visibile si fonda su una civiltà della visione, il cui nodo costitutivo è appunto svolto dalla funzione primaria della “visualizzazione del tempo”. Il tempo non è vissuto né è percepito come dimensione interiore, ma quale griglia di un complesso loop per così dire “spaziovisuale”.

D’altra parte, una civiltà del visibile si fonda su un cospicuo investimento di risorse economiche, intellettuali ed energetiche. Le complesse reti gerarchiche che costruiscono queste realtà sono dunque direttamente proporzionate alla resistenza e alla deriva spontanea offerta dalle masse umane che in astratto costituiscono il “pubblico”. Se le risorse temporali (l’equivalente psichico delle risorse energetiche) fossero disperse in mille rivoli non sarebbe mai possibile promuovere una vera visibilità, né creare un “oggetto” dell’attenzione, dell’attesa e del desiderio, specialmente se si deve superare la resistenza passiva di milioni e milioni di coscienze e di sensibilità, latrici, ciascuna, di una diversa concezione del mondo e di un differente retroterra culturale e storico.

Apparentemente questo meccanismo coinvolge soltanto gli operatori dell’art system, in tutti i settori, dallo spettacolo alla musica, dalle mostre storiche alle sperimentazioni estetiche più avanzate, lasciando del pari liberi tanto gli operatori quanto gli spettatori, o gli “amanti” dell’arte, o i “cultori” o, come si diceva un tempo, i “fruitori”. Ciò che si vuole garantire è la particolare “qualità” del tempo speso da questi soggetti. Va da sé che gli operatori sono disposti a caricarsi dell’ingrato fardello temporale, e sono predisposti a “ottimizzarlo” al solo scopo di consentire ai soggetti economicamente rilevanti (in entrata e in uscita) di esercitare il loro diritto d’accesso alla “qualità”.

Vediamo di aprire la scatola. L’evento d’arte è oggi un volano; intorno a esso si coagulano forme di interazione che provengono dai più disparati settori della società. Ma la creazione dell’attesa dell’evento, quindi la fondazione di un inter-esse, resta appannaggio dalla macchina scenica contemporanea, dunque del sistema dei media. Il grande concerto per un pubblico giovanile o per quello più colto, per così dire più “selezionato”, oppure l’installazione in piazza, la performance, il vasto contenitore espositivo sono “eventi” di questo tipo. I momenti visibili dell’arte contemporanea sono perciò media events cultural-mondani, mai svincolati da complesse strategie di marketing, dove le ragioni dell’economia, della cultura e della politica non sono neanche alla lontana fra loro distinguibili.

E ora il fattore temporale. Questi grandi (ma anche piccoli) eventi segnano la nascita e l’affermazione di un’“abitudine sociale” connessa al consumo degli avvenimenti medesimi. Infatti, i contenitori pieni di contenuti, ma privi di adeguate strategie tendenti alla giusta contestualizzazione, sono sempre vuoti. Il musei pieni di capolavori ma vuoti di visitatori, che non sanno mettere in scena i propri contenuti è sono innumerevoli. Ma questo stesso vuoto si riempie all’inverosimile quando è inscenato l’evento. Da qui il rito dell’“inaugurazione”, che riunisce varie persone connesse da legami di appartenenza mobili, differenti ma ben identificabili.

L’evento d’arte è in realtà un “attrattore” che orienta flussi di persone e di capitali in una certa direzione. È quasi superfluo ricordare che questo genere relativamente nuovo di sistema aggregativo soggiace a un’obbedienza temporale particolarmente potente.

L’economista Richard Florida ha notato che esiste una stretta dipendenza fra l’offerta culturale delle metropoli e la loro capacità di attrarre giovani energie creative, attive in tutti i settori. Il volano delle economie avanzate contemporanee è pertanto la creatività, ma questa sfuggente facoltà ha bisogno di alimentarsi di se stessa, formando il proprio humus. Dove trionfano le ragioni dell’economia, lì si è molto prossimi alla forza invisibile dell’obbedienza temporale.

Il consumo di eventi artistici ha poi prodotto un’abitudine sociale trasversale, il cui unico alimento è costituito dal consumo medesimo, ovvero dall’occasione, soprattutto se amplificata dai media. Si è in connessione solo se innestati in questo tipo di rete ludica. Altrimenti si è “fuori”. Ma che cosa fornisce la griglia dove collocare questo nuovo tipo di ritualità e questo nuovo genere di abitudine sociale? Ancora una volta siamo al cospetto di un vistoso esempio di obbedienza temporale.

Il principio di indeterminazione e la temporalità delle “reti di piccolo mondo”

Tutto ciò descrive sommariamente un determinato e consolidato umwelt. Si è affermato che esiste un secondo habitat non meno articolato del primo, dove però l’esperienza estetica (e la sua connotazione temporale) subisce vistose alterazioni. Questo secondo umwelt è la Rete.

Nei domini della Rete si stanno sviluppando imponenti strutture emergenti che restano però invisibili agli occhi del mondo “esterno”. La relativa invisibilità dei nuovi modi di essere in uno spazio estetico reticolare dipende anche dal fatto che si tratta di comportamenti collettivi “auto-organizzanti”. Le azioni delle singole parti generano il comportamento complessivo, ma, del pari, il comportamento collettivo e complessivo guida le azioni delle singole parti. In rete si assiste in presa diretta alla nascita di una direzione di causazione circolare, formata da feedback e da feedforward che si inseguono senza sosta. Questo loop pluridimensionale è tipico degli eventi in cui sono coinvolti grandi numeri di soggetti, per esempio i fenomeni d’isteria collettiva nelle piazze e negli stadi. Essi sono definiti da variabili collettive che si fissano su caratteristiche di alto livello, omettendo le proprietà dei singoli individui.

Si può capire il tipo di andamento di una struttura emergente che coinvolge un gran numero di individui usando il tempo come fondamentale sistema di riferimento, sul quale rilevare i valori in entrata e in uscita. Questi valori possono essere monetari, energetici, informazionali, ma possono anche essere semantici, possono cioè corrispondere ad altrettanti contenuti e predisporre ad altrettante estetiche.

Le variabili collettive si traducono in questo modo in diagrammi di flusso disegnati in tempo reale. Uno degli sconcertanti effetti di questo nuovo genere di dinamica temporale sta nel fatto che non è possibile stabilire a priori quali strutture dovranno emergere e affermarsi. In pratica non è ammissibile, in alcun caso, stabilire in anticipo (quindi programmare) quale insieme di segnali possa essere quello vincente, accreditato o goduto di preferenza. In rete non è possibile progettare e costruire insiemi semantici predefiniti, come invece accade nel mondo “reale”, perfino nell’incerto settore dei consumi estetici. E anche se lo si fa – perché lo si fa – ci si accorge ben presto che questa strategia non funziona.

Il fattore temporale è al centro di questa dissonanza, e poiché il sistema-rete si sviluppa nel tempo, è possibile comprendere in che mondo esso agisce e a che cosa è sensibile. L’esame statistico di questi comportamenti collettivi può soltanto esibire quali siano le strutture emergenti, niente di più. In rete non è di fatto possibile stabilire alcun rapporto fra le variabili collettive e i parametri di controllo. In altre parole, il sistema delle motivazioni è in rete un insieme non definibile. Certo, è possibile capire in tempo quasi reale quando emergeranno alcune unità semantiche altamente richieste, ma non è ammissibile capire quali saranno.

Ecco un’inattesa verifica del principio di indeterminazione. Le ragioni di questa singolare estetica parallela e di questa temporalità “alterata” sono chiarite dalla matematica e dalla teoria delle reti.

Le reazioni, i modi di percepire, di immaginare, di inventare poste in essere da ogni individuo immesso in una rete distribuita sono molto diverse da quelle derivanti da altri generi di “incorporazione” in matrici reticolari meno recenti, più “fisiche”. Un campo di studi detto “teoria dei grafi”, sviluppato dal matematico Paul Erdős e poi utilizzato ed esteso da Alfréd Rényi, Steven Strogatz, Albert-László Barabási e da altri per studiare la sincronia all’interno di ambienti complessi, autopoietici ed evolutivi, mostra che nel web le dinamiche di rete sono molto diverse da altri tipi di sviluppi che ancora oggi primeggiano in molti ambienti “esterni”, per così dire “pre-connettivi”, compresi gli ambienti degli artisti e dei letterati.

Tra gli effetti delle reti distribuite è di fondamentale importanza l’emergenza delle cosiddette “reti di piccolo mondo”, o “reti prive di scale”, fondate sui legami deboli: strutture tipiche, già intuite negli anni Settanta dal sociologo statunitense Mark Granovetter.
Nelle tradizionali reti sociali (compreso l’art system) la struttura ordinata emerge dalle connessioni che uniscono gli uni agli altri gli elementi di un insieme, ma seguendo una progressione di relazioni “prossimali”. Come si è visto, in questo genere di strutture sono essenziali il riconoscimento reciproco dei soggetti coinvolti, la scansione temporale degli eventi, l’obbedienza temporale e la costruzione ordinata degli eventi.

Nelle reti distribuite, dove in ogni istante si creano spontaneamente molteplici reti di piccolo mondo, tutto ciò non ha alcuna presa. Il web è appunto una rete di piccolo mondo, o, in termini matematici, una “rete priva di scale”: un intreccio in cui la distribuzione dei siti (e dei rispettivi materiali semantici) non segue una classica curva a campana relativa all’importanza dei siti medesimi o dei loro rispettivi contenuti. Al contrario, una rete priva di scale presenta un grafico che evidenzia picchi vertiginosi (che corrispondono al numero di connessioni a un determinato sito o a un gruppo di siti) seguiti da lunghe “code”, progressivamente decrescenti, che indicano il grado di interesse per tutto il restante materiale semantico distribuito in rete.

Nelle tradizionali reti sociali, caratterizzate da curve a campana, la struttura ordinata è fornita dalle connessioni che uniscono gli uni agli altri gli elementi di una rete, ma seguendo una progressione di legami “prossimali”. Questi ultimi sono definiti come i cosiddetti “legami forti”. Nelle strutture sociali tradizionali i legami forti corrispondono a forme di interazione molto intense e costanti, come quelle che ad esempio legano fra loro i membri di un’organizzazione politica o i rappresentanti di consolidati interessi mercantili. Queste precise geometrie entrano in crisi quando intersecano insiemi aleatori di connessioni casuali, i cosiddetti “legami deboli”, connessioni che hanno il potere di abbreviare e talvolta perfino di annullare i “gradi di separazione” che esistono fra una parte del reticolo e un’altra.

Ma i legami deboli creano cambiamenti strutturali perché fanno interagire in tempo reale realtà distanti. Il punto archimedeo è dunque proprio il differente rapporto che nelle reti distribuiste si stabilisce fra il tempo soggettivo e il tempo oggettivo. Nelle reti informatiche distribuite le intenzioni, le motivazioni e le azioni collassato in una sola funzione d’onda, e ciò produce ipso facto un enorme tornado informazionale, che ricombina l’assetto della rete istante per istante.

Ma c’è di più. La forza d’urto dei legami deboli resta pressoché invisibile, agli occhi del mondo “esterno”. Infatti, le reti informatiche distribuite sono sufficientemente “piccole” anche se mostrano valori di “addensamento locale”, o clustering, molto alti. Il clustering è definito come la probabilità che due nodi connessi a un nodo comune siano anche connessi l’uno all’altro. È importante notare ai nostri fini che le connessioni sono sempre definite in modo biunivoco. Le connessioni si verificano in modo lineare, fra due punti, nodi o soggetti sociali. Ogni punto, nodo o soggetto sociale può intrattenere legami con una pluralità pressoché illimitata di altri punti, nodi o soggetti sociali, ma sempre in modo lineare e biunivoco, proprio come un angolo di una figura geometrica è connesso agli altri angoli da linee immaginarie che uniscono i vertici due alla volta.

Se si applicano al web i modelli matematici sulle reti di piccolo mondo si scopre che non tutti i materiali che plasmano la “semantica” di una rete di questo tipo assumono la stessa importanza. Periodicamente si formano in modo del tutto autonomo, autopoietico, delle vere e proprie reti nelle reti, reti che manifestano una impressionante “forza d’attrazione”, ma in assenza di strategie di richiamo dell’attenzione. Queste reti nelle reti tendono a cumulare link in un processo autogenerativo che forma strutture particolarmente importanti per la tenuta complessiva di un organismo reticolare parzialmente causale come è il web.

Queste dinamiche coinvolgono comportamenti di tipo gregario, tipici della nostra specie. Anche le preferenze e le sollecitazioni estetiche possono essere trattate come informazioni che seguono le medesime leggi di distribuzione. In una rete di piccolo mondo l’adozione o il rifiuto di una nuova forma estetica implica decisioni individuali, che si basano sulle decisioni prese da altri ma in una logica distributiva su larga scala che è direttamente correlata al coefficiente di addensamento locale.

In altre parole, nelle reti distribuite le decisioni individuali non ricevono impulsi significativi dai legami prossimali, ma le ricevono dalla rete dei legami deboli in tempo quasi reale.

In parole povere, un sito inizia a capitalizzare contatti, quando i suoi contenuti e la sua estetica sono individuati e percepiti da una koiné comune ma distribuita. In questi casi si forma il seme di un futuro hub, cioè di un punto centrale o nodo primario. Se il processo si perpetua per un lasso tende tempo sufficiente, ma comunque molto breve, se paragonato al tempo che nel mondo reale si impiega per costruire un personaggio o un evento, l’hub accresce vertiginosamente la sua forza d’attrazione, trasformandosi in un nodo nevralgico che, insieme ad altri nodi di pari forza, tiene insieme una rete di piccolo mondo. Questo processo era già noto in forma intuitiva e un po’ oscura a Wilfredo Pareto, ma è chiarito dalle teorie sulle dinamiche di rete, particolarmente adatte a spiegare le evoluzioni che si verificano nel web, dove il campo d’azione è planetario, la velocità di elaborazione è elevatissima, e dove pertanto le trasformazioni sono percepibili (non “visibili”) nel loro formarsi, accrescersi e deperire.

Questo significa che possono sorgere tendenze estetiche a una velocità mai prima vista, e possono diffondersi come un incendio. Ma significa soprattutto che non c’è modo di influire volontariamente su tali processi. L’auto-organizzazione segue le sue leggi. Le dinamiche delle reti di piccolo mondo favorite dal web non si incrociano con le dinamiche delle reti gerarchiche. Si può anzi notare un paradosso. Mentre le reti gerarchiche vivono e prosperano per mezzo della visibilità, le reti di piccolo mondo creano una sorta di “cultura dell’invisibile”. Una cultura che, però, per le sue stesse caratteristiche strutturali, cognitive e psicodinamiche, non può tradursi in una “civiltà dell’invisibilità”.

Nel web la regola è l’invisibilità. Se questa invisibilità si trasforma in visibilità si può essere sicuri che è intervenuta da qualche parte l’azione dell’organizzazione delle reti gerarchiche, come accade, ad esempio, quando un canale televisivo punta i riflettori su un fenomeno nato e sviluppatosi nel web. In questo caso un elemento avvolto nell’invisibilità emerge in un altro spazio-tempo estetico e comunicazionale; uno spazio-tempo che non ha nulla a che fare col campo d’azione d’origine. Ora l’invisibile può essere visibile. Ma si tratta di fenomeni ibridi, che rendono conto della stato di frattura fra due universi altrimenti paralleli.

La distanza fra i due ambienti deriva non soltanto dalle caratteristiche dei due tipi di rete, ma anche dalle strategie d’azione adoperate. Il web non è soltanto un contenitore di informazioni, né soltanto uno strumento di comunicazione, ma è anche un convertitore dei sistemi sensoriali potenziato dai programmi.

Sistemi di elaborazione dei suoni, delle immagini e degli ambienti tridimensionali sono sempre più spesso utilizzati nelle reti informatiche distribuite, non in parallelo ma seguendo una logica convergente, cioè in sinestesia. Gli studi sulla compensazione percettiva mostrano che adattiamo i nostri sensi e le nostre procedure di interazione al tipo di sollecitazione che ci viene fornito dall’ambiente. Se l’umwelt si divide in più ambienti le nostre conoscenze primarie tendono di conseguenza ad adattarsi alle percezioni e alle azioni di diversi contesti. Tutto ciò rende conto del perché si verifica un disorientamento quando nel giro di poche si passa ore da un tipo di habitat spazio-temporale a un tipo che per certi aspetti ne costituisce l’immagine rovesciata.

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