Deserto Globale

 

 

Riflessioni in libertà di un antropologo al tempo del Covid-19

 

13 aprile 2020

 

Un’immagine in questi giorni ha straordinariamente colpito i telespettatori del mondo intero. È l’immagine di Papa Francesco che si sperde nei grandi spazi di Piazza San Pietro mentre amministra il rito pasquale della Via Crucis. È difficile pensare a una rappresentazione più icastica di questa per definire il senso di solitudine e di spaesamento che ogni uomo, se riflette a fondo, ha quando si confronta con l’immensità incomprensibile dell’universo.
Di questa inedita immagine dolente si può anche dare una seconda lettura. Papa Francesco ha amministrato da solo un rito che, come tutti i riti, dovrebbe comportare la presenza fisica di altri, di molti altri, in una rappresentazione collettiva.
È la prima volta in assoluto, nella storia, che si assiste a una così patente contraddizione in termini.
Si dirà, ma il Papa era comunque in mondovisione. In fondo è la stessa cosa. Come afferma la celebre metafora di McLuhan, siamo nel villaggio globale grazie ai moderni mezzi di comunicazione. In realtà, questo è stato il primo esempio di evento consumatosi in un deserto globale, e lo dimostrano proprio i commenti a caldo apparsi sulla stampa nazionale e internazionale. La Via Crucis con il Papa in mesta solitudine è stato un vero e proprio ossimoro visivo: l’equivalente di un presepe dove c’è solo il Bambino Gesù, e neanche confortato dal bue e dall’asinello.
Il motivo dello sgomento, a parere di chi scrive, sta nella natura stessa del rito.
Cosa siano i riti, perché essi siano stati creati dall’uomo e come mai essi esistano in tutte le culture, storie e tempi, è pane quotidiano dell’antropologo; lo studente alle alle prese con questa materia, in pratica non fa quasi altro che studiare manuali che per oltre due terzi girano intorno alla centralità dei riti fra tutte le azioni umane dotate di significato.
Il rito è un universale antropologico. Riti di aggregazione, riti funebri, riti di passaggio, di fertilità, di iniziazione si affiancano e sostanziano tutti i culti esistenti ed esistiti, quali che siano. Perfino nelle società mondane, laiche, e razionalizzate al massimo grado dal dominio culturale e politico della tecno-scienza e dell’economia, la necessità di una qualche forma di ritualità nelle varie fasi dell’esistenza umana è egualmente sentita. Se non si può ricorrere ai riti di matrice religiosa o tradizionale, ebbene li si inventa di sana pianta. Il più delle volte si tratta di riti effimeri, connessi a mode o a situazioni particolari destinate a vita breve. Non importa. Ciò che importa è invece il bisogno fondamentale di essere insieme in una situazione carica di significato, per ciascuno e per tutti i presenti.
Esiste addirittura una recente branca di studio, a cavallo tra l’etologia umana, la psicologia e la biologia evoluzionistica, che tenta di andare alle radici dei questi comportamenti universali.
Tuttavia, il dato comune di ogni rito, quale che sia la sua origine scopo e pertinenza, è sempre il fatto che esso debba riunire fisicamente una comunità. Possono esistere rituali che prevedano per un certo periodo e a certe condizioni l’isolamento di un individuo o perfino di un gruppo, ma sempre all’interno di un’economia dello scambio fra attori sociali. Uno scambio che si costruisce e si consuma a contatto l’uno dell’altro.
Pensiamo, a mo’ di esempio paradossale, a un matrimonio in cui il ministro del culto sia l’immagine su uno schermo, i due contraenti siano alla distanza di sicurezza di almeno due metri l’uno dall’altro, muniti di mascherina, e gli invitati siano presenti solo tramite smartphone. Naturalmente niente pranzo o cena, niente convitati, niente bomboniere, se non virtuali o recapitate via Amazon. Sfido chiunque a desiderare un matrimonio del genere.
Questi mesi di pandemia globale, tra le altre forme di vita sospesa, hanno dato un colpo mortale proprio ai riti, di qualunque natura, scopo e forma.
SI è parlato parecchio della necessità della distanza sociale, ma mai come ora si era vista una condizione globale, mondiale, in cui la distanza è tutto, l’isolamento è il sistema generalizzato, l’incompatibilità è la legge. Tutto appare del segno algebrico opposto alla ritualità. Niente matrimonio, messa, bat o bar mitzvah. Soprattutto nessun funerale. È la dolente cronaca della impossibilità dell’ultimo accompagnamento: dalle file interminabili di bare indistinguibili davanti ai cancelli del cimitero di Milano e di Bergamo sino ad arrivare alle immagini delle fosse comuni di New York.
Così il senso della vita, con tutti i suoi passaggi seri e meno seri, se ne va e non si sa quando ritornerà. Anche le aggregazioni meno formali hanno sovente, anzi quasi sempre, una loro ritualità. Gli amici che si riuniscono per giocare a Danger and Dragon o che vanno al cinema, e poi le cene, gli incontri sportivi, le gite fuori porta e i viaggi, pensino le riunioni di lavoro o di studio, di passeggiata con i cani, sono tra i mille e mille modi di stare fisicamente insieme in base a un qualche tipo di rituale, sia pure più fluido, meno formale. Forse, la condizione connettiva offerta delle nuove forme di comunicazione online potrà in parte surrogare, ma sarà sempre come fare un bagno caldo vestiti in giacca, cravatta, cappotto e scarpe.
E ora una piccola chiosa sul tempo. È a tutti chiaro, persino a coloro che si accecano volontariamente, che tale odiosa condizione di separazione e di sospensione di ogni significativo scambio sociale, ad esclusione di quello intimo, famigliare, se si escludono i lutti, resta la parte più pesante di tutta questa tragica vicenda globale. Ed è la parte che potrebbe avere inaspettate conseguenze qualora dovesse protrarsi a lungo, molto a lungo, come da più parti si teme. Incidere così a fondo e soprattutto per un lungo lasso di tempo su bisogni che si possono ben definire “istintivi”, non può che avere delle ripercussioni importanti. Potremmo anche essere all’inizio di un radicale mutamento di paradigma dei rapporti sociali, sempre che si possa parlare ancora di socialità così come si è fatto sinora. Il tempo è cruciale. Un dolore acuto, per esempio dovuto un trauma da caduta, spaventa e preoccupa chi lo avverte, ma di solito se non è letale passa abbastanza velocemente, proprio perché ciò che è acuto non può essere cronico; e una volta guariti lo si dimentica in fretta.
Ma uno stato cronico è tutt’altra faccenda. Esso erode le forze lentamente e subdolamente, e nel tempo può inesorabilmente mutare l’aspetto e persino la personalità di chi lo subisce. Auguriamoci tutti che non sia questo il destino che si prepara.