You Robot

Antropologia della vita artificiale

I robot sono fra noi, anche se si nascondono. Essi proliferano nelle fabbriche, nei negozi di giocattoli, nei laboratori, nella case, nelle strade e nei mezzi di comunicazione. La loro capillare presenza è ancor più accentuata dalla loro rapida evoluzione. Accanto ai tradizionali robot si contano oggi i biorobot, gli animaloidi, i gel-robot, i nano-robot e i robot insettiformi, che agiscono in sciami, e che hanno ispirato Preda, l’ultimo romanzo di Michael Crichton.

Esistono robot “socievoli” e robot umanoidi e in Giappone, paradiso della robotica, si sperimentano i supermercati robotizzati. Ce n’è abbastanza per intuire che si è al cospetto dei primi passi della più importante rivoluzione industriale, tecnologica e antropologica degli ultimi cinque secoli. Una metamorfosi di fronte alla quale la nascita dell’Internet, che pure conta la sua particolare popolazione di robot virtuali, impallidisce e assume le dimensioni del canto del cigno del ventesimo secolo. Il ventunesimo secolo sarà il tempo dell’integrazione fra gli uomini e i robot, oppure non sarà. Tutto lascia supporre questa conclusione. Eppure i dubbi non mancano.

A farsene carico sono gli specialisti in quelle forme del pensiero e della creatività che appaiono in declino, ma che ciò nonostante sono le sole che mantengono un filo diretto con quegli aspetti della vita che si sottraggono ai laboratori. Questi specialisti danno vita alle immagini e ai miti della modernità. Modelli o precognizioni? I robot reali sono stati abbondantemente preceduti dai loro antesignani letterari. Pertanto, il mito del robot non è un evento casuale ma una parabola, una allegoria di una nuova condizione esistenziale, le cui premesse erano nell’aria da decenni, forse da secoli. Ecco un’allegoria che si è trasformata in un serio programma di ricerca, dagli esiti incerti, ma dalle conseguenze epocali. Il corpo del robot è uno specchio riflettente, la sua tomografia mette a nudo le metafore di una civiltà in tumultuoso divenire.

Questo libro è il primo atto di uno studio sulle origini dei grandi miti dell’ultramodernità. Tutto ciò che ci circonda parla di queste formidabili trasformazioni, sicché l’anima si smarrisce. Il robot è un bardo che racconta alla piccola anima storie di terre lontane, di tesori nascosti e di arcobaleni stupefacenti. Impossibile non essere rapiti da questi miraggi, da queste promesse.

Ma non tutto ciò che luccica è prezioso. You, robot tenta di mostrare che il mito dell’uomo artificiale nasconde soprattutto lati oscuri. Il concetto di integrazione in una civiltà robotica, o più semplicemente l’ipotesi di una civiltà robotica, incontra resistenze culturali di varia natura. Il motivo è semplice. Non si può parlare di integrazione, e perfino di “fusione”, se non si presuppone che si amalgameranno elementi affini, o quantomeno capaci di comunicare. Non è possibile misurare una frazione tra emozioni e numeri, o tra numeri e idee preconcette. Le frazioni valgono solo fra quantità diverse, ma sempre denotate da simboli che alla fine rimandano a numeri, cioè a quantità.

Analogamente, non è concepibile alcuna idea dell’integrazione fra uomini e robot, o fra uomini e tecnologie le più varie, ma dotate di forme di “intelligenza” aliene, se non si presuppone che le due strutture siano differenti solo in apparenza, che in realtà abbiano in comune la stessa sostanza. Robotica e neuroscienze condividono questo piano universale.

La robotica progetta sistemi, le neuroscienze studiano sistemi già esistenti: i cervelli viventi. Ma entrambe le discipline convergono nel concepire l’oggetto di studio come un elaborato dispositivo, le cui facoltà possono in ultima analisi dipendere dalla finissima grana della costituzione dell’universo. Può perfino darsi che la realizzazione pratica dell’alieno-umano, cioè del robot, richieda soluzioni che affondano nelle strutture sottili dell’universo, così come un giorno lo studio dei cervelli biologici forse troverà un adeguato passepartout nella fisica quantistica, così come prevede Roger Penrose.

Non è dato saperlo, e del resto non è questo l’oggetto del libro. Ma anche senza traguardare le frontiere l’atteggiamento di fondo resta il medesimo, come si evince dal fatto che fino a non molti anni fa era vincente in entrambe le discipline (e lo è tuttora, quantunque con qualche interrogativo in più) una cognizione computazionale tanto del funzionamento dei cervelli organici quanto della struttura di una “mente” robotica. La teoria dell’informazione ha avuto il ruolo di amalgamare il vivente al non vivente. Tutto ciò, sul piano socioculturale, ha significato la nascita e lo sviluppo di un movimento di pensiero che ha assimilando l’artificiale all’organico. Ne deriva che i due principi possano fondersi in una sola unità di ordine superiore. Nelle estreme proiezioni c’è addirittura chi immagina configurazioni di vita artificiale fondate su basi più efficienti o complesse, che potrebbero derivare dalla equiparazione dei due modelli di “esistenza”.

Se la natura fondamentale delle due costituzioni è la medesima, non ci si può appellare ad alcuna differenza specifica per sottrarsi alla fusione, o alla sostituzione. Fra quantità diverse, ma denotate da simboli appartenenti allo stesso insieme, è infatti possibile operare qualsiasi frazione. La cultura cibernetica tutela il suo piano strategico: l’integrazione fra l’artificiale e l’organico. Ma alla luce di questa ideologia non ha alcun senso parlare di integrazione. Il cyborg inteso come oggetto intermedio (in parte organico, in parte biologico) è (letteralmente) una chimera, un falso. L’unità funzionale cibernetica non integra processi differenti, ma estrinseca semplicemente se stessa. Il messaggio è chiaro. Se in questo momento storico iniziano ad apparire alcune “chimere” che perturbano le coscienze, agli occhi delle entità intelligenti del futuro tutto ciò dovrebbe essere concepito semplicemente come un processo di ricapitolazione, analogo a quello che avviene nell’embrione quando ripercorre i vari stati evolutivi, prima di completare la sua forma attuale. Siamo solo gli anelli di un’ininterrotta catena, si afferma.

O forse è vero il contrario? Dopotutto, se si discute in profondità il concetto di “vita artificiale” ci si accorge che dietro le varie discipline che perseguono questo obiettivo si nasconde un antico dilemma metafisico: la presupposizione della perfezione. Il punto è che tecnici e scienziati sono pur sempre figli del nostro tempo, e il nostro tempo subisce come non mai la pressione del suo passato. È per questo che gli scienziati, tra le righe (ma talvolta perfino senza remore), trattando dei fini e dei traguardi di simili progetti si appellano alla spinoziana categoria della “necessità”. Se non che tale presunta necessità appare al giorno d’oggi, assai più che in un recente passato, inscritta nel dominio della tecnologia, piuttosto che delle scienze teoretiche “pure”. Quindi, questa stessa categoria risulta una necessità “a responsabilità limitata”.

Ora, se si passa dall’intenzione all’azione, ci si rende subito conto che il progetto della vita artificiale, incarnato nell’immagine mitica del robot, ammette una filiazione intrisa di una seconda categoria metafisica, derivante logicamente dalla prima: la perfezione. La vita artificiale è l’equivalente prometeico di una creazione ex nihilo, ma il suo risultato finale, lo scopo della ricerca, è idealmente una entità assoluta. Non a caso i più noti scrittori di fantascienza hanno strappato alle remote profondità del loro inconscio l’immagine del dio-computer, del robot creatore dell’universo, dell’intelligenza artificiale assoluta. Esiste Dio? “Ora sì”, risponde il Multivac asimoviano. E non sembra un dio benevolo.

Il prometeismo è intrinseco al progetto della vita artificiale perché questa contraddice la categoria della necessità. Se non esiste alcuna necessità, se non c’è alcuna riconoscibile direzione stabilita dalle premesse di una specie intelligente e manipolante, perché mai perseguire questa strada? In nome di quale amor fati? E poi, se l’obiettivo verrà un giorno realizzato i casi sono due: o questa entità entrerà in relazione con la sua fonte creativa, oppure essa se ne andrà per la sua strada, disinteressandosi della matrice.

Come si vede, il presunto prometeismo umano verrebbe in ogni caso rovesciato. Prometeo è il robot, Prometeo è l’uomo nuovo artificiale e non il discendente acculturato e tecnologico del pitecantropo. Non diversamente da Zeus anche l’uomo immagina di incatenare alla rupe dell’impotenza il dio ribelle con l’aiuto della Forza (Kratos) e della Violenza (Bia). Si possono interpretare in questo senso le cosiddette “tre leggi della robotica” ideate da Asimov nei primi anni ’40, quando la prima macchina di Turing era ancora un semplice progetto. Queste leggi, ma anche altri tipi di vincoli concepiti dagli scrittori-scienziati, sono invenzioni rassicuranti, che servono principalmente a sedare i profondi sentimenti negativi che hanno origine dall’inconscio collettivo. Ogni forma di controllo implica l’esistenza di un conflitto preesistente.

Prometeo è il dio del conflitto, non della sapienza o della tecnica, come si ritiene. Semmai il suo rapporto con la tecnica (e perfino, non a caso, con le oscure origini dell’idea di automaton) sono altrettante estrinsecazioni del suo essere un dio ostile, ribelle, pari in dignità al suo tormentatore. Solo il simile entra in rapporto col simile, sulla base delle equivalenze e delle connessioni. Altrimenti egli è in-differente, vale a dire incapace di stabilire delle differenze. In questo caso non c’è frazione possibile.

Anche di ciò si discute in You, Robot. L’immaginario popolare è attratto e respinto dalla possibilità della vita artificiale, e riversa le sue speranze e i suoi timori nella ambivalente figura del robot di volta in volta schiavo perfetto, inconsapevole capro espiatorio, doppio mimetico, figlio obbediente, ribelle a oltranza o esemplare inquietante di intelligenza aliena, la prima vera intelligenza “extraterrestre” con la quale l’uomo potrebbe avere commercio. La sensibilità popolare diventa narrazione grazie alla costante opera di intellettuali, di artisti, di specialisti nelle varie forme di comunicazione, dalla scrittura al teatro, dal cinema al fumetto. Questi mediatori culturali occupano una posizione scomoda, perché sottoposti alla duplice pressione del senso comune e della ideologia dominante.

Se il mito del robot senziente sembra a un passo dalla sua concreta realizzazione, a posteriori si può quasi riconoscere nelle espressioni della cultura popolare che hanno trattato tale argomento una sorta di preveggenza, che sconfina nell’inorientamento. Le tradizioni culturali sono oggetti di studio imprendibili, ma nondimeno autoevidenti. Le varie culture reagiscono diversamente all’imposizione dell’ideologia cibernetica, ma lo fanno in modo indiretto, usando metafore, immagini, racconti, produzioni per l’appunto eminentemente “culturali”. Da qui la sterminata progenie di mostri e di archetipi negativi connessa alla rappresentazione del robot.

Questi timori non allignano soltanto nella mente delle cosiddette masse incolte; essi – come si vedrà – sono al contrario profondamente radicati anche nelle sottaciute visioni degli specialisti che si dedicano direttamente o indirettamente al progresso delle tecnologie e delle teorie che hanno attinenza con l’oggetto di questo studio. Come è possibile?

Dipende dalle premesse filosofiche che innervano l’ideologia cibernetica. Non è un caso se il termine “cibernetica” non piace più alla comunità scientifica. Quel cenno semantico al governo, quindi al dominio, desta preoccupazione proprio nel momento in cui la robotica si dimostra a un passo dalla possibilità concreta di ristrutturare alle radici l’intero sistema di valori sul quale poggiano le attuali civiltà. Le tecnoculture sono sensibili alle oscillazioni emotive delle masse e cercano di difendersi dalle decisioni collettive, sostenendo che soltanto coloro che posseggono i linguaggi corretti sono in grado di giudicare sulla liceità dei propri progetti. Può sembrare un’osservazione corretta, anzi inoppugnabile. Se non che le tecnoculture finiscono con l’incidere sulla vita di tutti. Una conventio ad excludendum fondata sul dominio dei linguaggi specialistici finisce allora per trasformarsi in una democrazia basata su un nuovo tipo di censo, sicché le decisioni per tutti sono prese da quei pochi eletti che si trovano ai vertici dei processi decisionali. Ma la facoltà di intravedere il futuro non elimina il problema del libero arbitrio, soprattutto se esso si fonda su sistemi valoriali accreditati dall’uso: schemi profondamente introiettati, che riemergono anche in coloro che, per le caratteristiche del loro lavoro, ne sembrerebbero immuni. La pressione sociale fa poi il resto.

Che cosa significa essere a un passo dalla fondazione di valori mai prima identificati? Per assumere qualcosa bisogna prima farne esperienza, in qualche modo occorre averne conoscenza. È lo stesso dilemma che nelle nostre società assilla gli adolescenti, presi tra i due fuochi dei valori autoevidenti dell’infanzia e di quelli molto più oscuri, ma nondimeno reali, dello strano mondo degli adulti, al quale non hanno ancora pieno accesso. Ma il transito alle complessità, alle sfumature della vita adulta è comunque favorito dall’esistenza di sistemi per l’appunto egemoni, in quanto appartenenti alle generazioni che in ogni dato momento storico tengono le redini del mondo. Può darsi che i visionari del nostro tempo siano davvero i primi depositari di una nuova coscienza valoriale. Il loro sguardo dovrebbe in questo caso osservare con chiarezza un orizzonte costellato di relazioni con l’artificiale mai prima sperimentate. Ma può anche darsi il contrario. È possibile che la saggezza alberghi fra chi intravede in questo ineludibile processo l’azione di forze torbide, se non manifestamente negative.

Premessa

Capitolo primo: UNA STORIA DI UOMINI E DI ROBOT

1.1 Il dogma del continuum

1.2 Gli antesignani

1.3 Costanti prometeiche

1.4 I robot e la morte

1.5 Robot, intelligenza collettiva e fobia dell’inclusione

Capitolo secondo: ROBOT MISTICO

2.1 Il vuoto della mente e il pieno dei sensi

2.2 Discontinuità versus continuità, autonomia versus connessione

2.3 “Amor” robotico.

2.4 Incorporazioni dell’artificiale

2.5 Immagini e rappresentazioni della cultura ferro/carbonio

2.6 Unione con il Dio computer

2.7 Robot e coppia primigenia

Capitolo terzo: CARATTERI UMANI E MENTE ROBOTICA

3.1 Le città neuroniche

3.2 Reti sociali e reti naturali

3.3 Frammenti in “libertà”

3.4 Ideologie robotiche

3.5 Continuum e discontinuità nelle neuroscienze

Capitolo quarto: I ROBOT NELL’ARTE DEL NOVECENTO

4.1 I primi passi meccanici

4.2 La seconda ondata

4.3 Il punto di fuga

4.4 Orizzonti transrobotici

4.5 Umanità senza uomini e teatro senza spettatori

4.6 I robot emozionali quali opere d’arte

Capitolo quinto: ROBOT D’ORIENTE E D’OCCIDENTE

5.1 I corpi astratti dell’Oriente

5.2 Il destino di Faust

5.3 Tecnomagia

5.4 I robot e l’Occidente

5.5 Il robot artista e politico

5.6 Il robot che ride

5.7 Robot negromanti e guerrieri

5.8 Psicotecnologia

Bibliografia

Indice dei nomi